Mi trovo a leggere sul Guardian, ribattuto poi dal Messaggero e altri:
“Ragazza violentata nel Metaverso. È questo l’inizio di un nuovo oscuro futuro?”[1]
E matematicamente mi arrabbio. Devo reagire.
Quando si parla di molestia, violenza, stupro, mi trovo nella posizione del maschio, bianco, etero, cis (una fortuna sfacciata), posizione dalla quale posso solo immaginare cosa voglia dire provare paura di chi ti circonda, timore di una strada della tua città, di un orario notturno, o delle parole scritte in un gruppo WhatsApp o in un direct di IG, e ho la consapevolezza che chi è il carnefice, nella maggior parte di queste situazioni, fa parte della mia stessa categoria sociale.
Veniamo da un fine-2023 sconcertante e doloroso.
Educazione, consapevolezza e strumenti
Nel mio ruolo di formatore ed educatore non posso non tentare di mettermi nei panni di tutti i miei studenti e studentesse, dalla primaria fino alla maggiore età, immaginando le loro vite e il loro vortice di emozioni contrastanti, interessi, paure, curiosità ed esperienze belle e meno belle.
E qui entrano in gioco, come ogni volta, gli unici veri aspetti di questo tema: l’educazione, la consapevolezza e gli strumenti.
Parliamo di internet, dalle prime chat room (nelle quali mi divertivo a dire stupidaggini a sconosciuti nel 1999), ai social network, fino ai giochi online più moderni.
Parliamo di qualsiasi luogo non reale, in cui siamo protetti da un avatar, da un nickname, dove possiamo agire indisturbati in modo pressoché anonimo.
LambdaMOO
Nel 1993, trentuno anni fa, Julian Dibbell pubblicava l’articolo “A Rape in Cyberspace”[2], nel quale si narrava della community LambdaMOO, un’applicazione online (pioniera dei suoi tempi) nella quale gli utenti potevano creare un proprio avatar, trovarsi online e comunicare, tramite un’interfaccia esclusivamente testuale. Il testo letto e scritto nell’interfaccia era la propria proiezione nella community: le azioni di chi ci circondava, i nostri atti, e le nostre parole.
Ebbene, in LambdaMOO una notte di marzo del 1993, il giocatore “Mr. Bungle” modificando codici, ed agendo in modo calcolato e deliberato, fece “agire” il suo ed altri avatar, compiendo violenze e atti sessuali. Per ore.
Gli utenti coinvolti non poterono fare a meno di leggere quei testi nell’interfaccia. I loro avatar stavano subendo quelle azioni.
Qualunque sia la nostra sensibilità, le azioni subite in qualsiasi “mondo virtuale” possono avere ripercussioni profonde nel mondo reale. Le vittime, pur non subendo danni fisici, possono riscontrare traumi psicologici paragonabili a quelli di una violenza fisica.
Ebbene?
Andiamo indietro di 31 anni e riscriviamo il titolo del Guardian come:
“Marzo 1993: Ragazza violentata su LambdaMOO. È questo l’inizio di un nuovo oscuro futuro?”
Digital Awareness
E quindi credo che oggi, come da sempre, siano ancora l’educazione, il conoscere, l’essere prima curiosi e poi consapevoli, le chiavi di questo annoso dilemma.
Conoscere le potenzialità di uno strumento tecnologico, capire quanto può essere potente ed efficace, sia nel bene che nel male, deve essere il fulcro di una società che deve prevenire, e non curare, questo tipo di interazioni.
La tecnologia è ordini di grandezza più veloce di qualsiasi legislazione voglia inquadrarla e gestirla, e ci troveremo sempre di fronte ad uno strumento nuovo, sconosciuto, magari non sufficientemente regolamentato, bello da usare, ma del quale non conosciamo tutte le sfaccettature.
Il nostro compito di professori, educatori, genitori è rendere consapevoli le nuove generazioni, affacciarci al nuovo insieme a loro, capire e accompagnare.
Nessun “Metaverso”
Vorrei tornare a vedere la realtà virtuale come un semplice “strumento per immergersi in un ambiente tridimensionale”.
Lo spauracchio “Metaverso” è sempre dietro l’angolo, ma non esiste “il Metaverso”.
Ogni azienda che produce app fruibili con un visore per la realtà virtuale, è responsabile degli ambienti online che produce. Alcuni nascono solo per giocare, altri per interagire e chattare. Alcuni prevedono customizzazione di avatar, e quasi tutti prevedono il parlare e udire la voce di chi è con noi nella stessa “stanza”. Ovviamente una grafica realistica, un’alta possibilità di customizzazione e la chat vocale sono alla base di un’esperienza coinvolgente.
E quindi, ancora una volta, la responsabilità di quello che viene agito in questo ambiente così realistico è, in primis, del fruitore.
Un problema vecchio come il mondo
Evitiamo quindi di demonizzare lo strumento.
Sono uno sviluppatore, e un modellatore 3D, e spero ancora in un futuro in cui la realtà virtuale sia un mezzo per esplorare, imparare e crescere, in un ambiente che valorizzi e protegga tutti i suoi utenti.
Un mezzo per sperimentare, incontrarsi in modo consapevole in ambienti nuovi, ideati e creati dagli utenti stessi, un modo per vivere esperienze interessanti, nuove, educative, ma anche ludiche e ricreative.
Puntare il dito contro “il nuovo strumento digitale” è ancora una volta il voler dare la colpa allo “sconosciuto”, per distogliere l’attenzione dal vero problema, vecchio come il mondo: la cultura dello stupro è sempre esistita, e la violenza di genere (e non) sono figlie della nostra civiltà, purtroppo, problemi completamente indipendenti dai mezzi nei quali vengono perpetrati.
Il “nuovo oscuro futuro” non è altro che l’oscuro presente, ed è sempre stato un oscuro passato.
E allora togliamoci dalla testa che la violenza è figlia delle nuove tecnologie, dei social e dei videogame, e facciamo tutto il possibile per evitare di crescere persone irrispettose e inconsapevoli.
L’educazione all’affettività, alla relazione con l’altro, al consenso, è lo strumento per evitare questa mancanza di consapevolezza e lo sviluppo di comportamenti sbagliati, spesso riconfermati dalla società adulta, e assorbiti inconsapevolmente ogni istante, in particolar modo dalle sempre più stimolate e ricettive nuove generazioni.