Cosimo Accoto – Il pianeta latente – Una recensione in 4 atti

Il pianeta latente
Provocazioni della tecnica, innovazioni della cultura
Egea, Milano 2024

Atto primo

Irruzione indisciplinata in terre incognite, così Cosimo Accoto presenta e descrive il suo ultimo volume appena pubblicato per i tipi di Egea ma in parte già discusso – nei suoi temi chiave – nella “fucina” che è il suo sito (https://cosimoaccoto.com/).

Da diversi anni seguo Cosimo Accoto, filosofo tech decisamente ec-centrico rispetto all’accademia italiana, e questo suo ultimo lavoro decisamente costituisce una “incursione filosofica” piuttosto che “un saggio filosofico” (con le sue inevitabili complessità e processi ben disciplinati) come lo sono i suoi tre precedenti scritti, la sua trilogia (Il mondo dato, Il mondo e-machina, Il mondo in sintesi – 2017-2022).

Leggere nuovi orizzonti dentro l’uncanney valley

Si tratta di un testo la cui lettura, per me, equivale all’apertura di una finestra sull’orizzonte di una valle avvolta nella nebbia e attraversata dalle nuvole autunnali di questi giorni. Una uncanney valley, mettendo assieme il significato che a questo termine danno l’ingegnere Masahiro Mori (1970) e il buon vecchio Sigmund Freud (1919). Una valle perturbata che ci chiede di saper leggere nuovi orizzonti (orizzontare) senza lasciarci prendere dalle sole visioni negative tipiche dello sguardo catastrofistico oggi così diffuso (catastrofare).

Il volume di Accoto, come dice con chiarezza il sottotitolo, sostiene (ed è il punto di partenza in tutto il suo lavoro) che “l’intelligenza artificiale si sta finalmente rivelando per quello che è sempre stato: una provocazione planetaria” … Essa è “un nuovo modo di essere (abitato) del nostro pianeta. Prefigura (e configura) l’ennesima ultima terraformazione del nostro mondo…Con il suo dispiegarsi planetario noi non affronteremo solo problemi tecnici …. Piuttosto e più radicalmente fronteggeremo delle provocazioni intellettuali” (pp. 121-123).

Orizzontare vuol dunque dire essere capaci di “innovazione culturale” e di pensieri sovrumani e “più che umani” andando oltre quella che è la posizione sintetizzata nel motto “human in the loop”.

Il volume di Accoto mostra infatti con tutta evidenza come già oggi, in tre diversi ambiti (il linguaggio, la visione e l’immagine, l’azione-agentività), l’umano sia già fuori dal loop.

E allora che fare?

Andiamo con ordine, partendo da Heidegger

Ma andiamo con ordine. Qui, in questa prima parte di una recensione in quattro parti, mi basta ricordare che nel prologo Accoto prende avvio dalla famosissima intervista a Heidegger del 1966 (pubblicata poi postuma, per suo volere, nel 1976) e dallo sconcerto – dallo choc – provato e confessato dal filosofo tedesco di fronte alle prime immagini della terra scattate in modo automatico dalla luna. Una visione che lo ha schiacciato nell’angoscia.

La terra, per la prima volta, viene “vista” da una diversa prospettiva, senza l’uomo al centro.

Ed è da qui, dall’idea che siamo di fronte ad una nuova “terraformazione” (per usare il titolo del volume del filosofo Benjamin Bratton del 2019) che prende avvio il percorso in tre tappe di Cosimo Accoto.

Percorrerlo assieme a lui richiede di lasciarsi prendere dal per-turbamento, avere il coraggio di avventurarsi nella valle piena di nebbie e nuvole per cercare di ritrovare nuovi orizzonti.

Per esplorare costruire nuovi linguaggi. Per confrontarsi con i nuovi lemmi di una cultura capace di sovrumani pensieri.

Atto secondo: l’ultima parola

Il volume di Accoto indaga ciò che accade nell’era delle nuove tecnologie che terremotano (distruggono) il presente e terraformano (costruiscono) il futuro. Ingegnerie della parola, dello sguardo, dell’azione. Del dire, del vedere, dell’agire.

Il primo capitolo è dedicato a L’ultima parola (Last words è anche un recentissimo volume del linguista-antropologo Paul Kockelman. (nb: per inciso va detto che la bibliografia su cui lavora Accoto è fatta di volumi recentissimi, alcuni persino non ancora usciti al momento della pubblicazione del suo saggio. Si tratta di una bibliografia molto interessante e utile: seguirla significa spesso percorre sentieri inesplorati nella foresta alla ricerca di antiche macerie che possono diventare nuove materie per nuove costruzioni).

Il capitolo parte da una domanda semplicissima: chi avrà l’ultima parola tra l’umano e la macchina? E già si intravede un ritornello che ritornerà per tutto il volume con gentile ma precisa polemica e che può essere riassunto nella seguente domanda: chi è lo Human che si vuole mantenere in the loop? E questa idea è forse solo comoda narcosi che vuole evitare il rischio di pensieri “più che umani e sovrumani”? Ci torneremo, perché il testo di Accoto è anche e forse anche (o soprattutto) un saggio di antropologia filosofica. Una risposta al quesito di Kant che, nella lettera del 4 maggio 1973 a Friedrich Staudlin, sintetizza le tre precedenti domande (Che cosa posso sapere? Che cosa debbo fare? Che cosa mi è lecito sperare?) nel quesito: che cos’ è l’uomo?

L’intelligenza artificiale ha preso la parola e siamo di fronte alla scrittura macchinica che incrina molti domini di senso implicati con l’idea che la parola fosse prerogativa umana: autoralità, normatività, responsabilità, autenticità.

Siamo di fronte a parole sintetiche che costituiscono (per ora) il punto finale di un percorso che parte dall’oralità, arriva alla scrittura e poi alla programmazione.

Ricostruendo la disputa storica tra comunicazione e computazione incontriamo così prima Leibnitz che invita a sostituire la parola con il simbolo (come avviene nel linguaggio matematico ad esempio) e infine il linguaggio macchina che fa nascere una nuova scrittura, quella della programmazione, che diventa scrittura eseguibile.

Il trittico diventa così lingua, numero, codice. Dove il codice rappresenta il nuovo linguaggio costitutivo della realtà perché “è il software che decide, disegna e dispiega le condizioni di possibilità del nuovo mondo” (p.23). Le peculiarità native del codice sono, dice Accoto, l’eseguibilità, la conseguente capacità di azione (agentività-agency), l’autonomia (e qui Accoto innesta una riflessione che riprende Paul Ricoeur e sottolinea come siano molti i filosofi che hanno riflettuto sulla autonomia della scrittura rispetto all’autore, non ultimi Roland Barth, Michel Foucault, David Gunkel).

Quella macchinica è una scrittura esecutiva, al contrario di quella naturale che è riflessiva.

Ma oltre alle dimensioni di eseguibilità e autonomia va riconosciuta una insicurezza ontologica del codice poiché il codice è sempre fallibile, degradabile, vulnerabile.

Le analisi e gli approfondimenti che Accoto compie sulla “parola” sono molteplici e sempre spiazzanti. L’idea di fondo (che è il Leitmotiv del volume) è che “la parola (e la scrittura) alla macchina è anche e soprattutto una provocazione di senso alla nostra idea di umano e delle sue prerogative storicamente date” (p.34).

Abitare il passaggio di civiltà verso la nuova terraformazione richiede di uscire dalla logica del catastrofare (interrogarsi sulla fine di un mondo dato) per entrare nell’orizzontare (proiettarsi all’inizio di un mondo nuovo) (p.39). Un esempio di che cosa significhi sta nel titolo di un saggio di Accoto (Protomedialità. Un azzardato orizzontare) inserito nel volume curato dal filosofo Stefano Moriggi e intitolato Postmedialità.

E in questo sforzo di “pensarsi” dentro le trasformazioni e perturbazioni connesse al pianeta latente che si sta terraformando facciamo anche i conti con le dinamiche di intraversione.

Ne parla Libuše Hannah Vepřek nel volume At the Edge of AI. Human Computation Systems and Their Intraverting Relations (2024): Una etnografa che studia le relazioni uomo-tecnologia e gli assemblaggi umano-AI sempre in divenire mostrando come queste formazioni siano segnate da intraversioni, in quanto cambiano con i progressi tecnologici e gli obiettivi, le motivazioni e le pratiche degli attori.

Atto terzo: l’occhio assente

La seconda provocazione intellettuale delle nuove ingegnerie artificiali, sintetiche, virtuali è sul senso e sulla sorte dell’immagine” (p. 45).

Il secondo capitolo del saggio, intitolato “L’occhio assente”, è così dedicato alle immagini e al “vedere”. Le nuove tecnologie digitali e l’AI, infatti, “vedono”, ovvero creano e utilizzano immagini “senza riferimento all’umano e senza referenza al mondo” (p. 48)

Una rapida storia della computer vision permette ad Accoto di ricordare che “la visione artificiale si è storicamente evoluta all’incrocio di operazioni militari, belliche e paanoptiche di sorveglianza” (p. 51) e che oggi “l’obiettivo della nuova disciplina sarà quello di sviluppare capacità macchiniche automatizzanti per estrarre informazioni su e da scene e contesti della realtà, analizzandone le immagini” (p.51). Si passa così da visuale (rappresentazione) al virtuale (inteso come computazione) dove processamento di dati e modelli viene fatto da macchine (si pensi ad esempio ai droni come armi letali autonome – Laws – Lethal autonomous weapons systems). Si tratta di un osservare – dice Accoto – che tende a lasciare l’umano fuori dal loop (53).

Ed è a questo che già nel 1988 Paul Virilio, filosofo francese “visionario”, preconizzò con la pubblicazione di La machine de vision che segnala l’emergere di un nuovo immaginario macchinico e di una industrializzazione del non-sguardo (53).

L’analisi di Accoto continua affrontando (filosoficamente) le immagini sintetiche, la genAI text-to-imagine, text-to-video ma anche il viceversa, ovvero video-to-text sino a giungere alla conferma della sua precedente intuizione sulla società oracolare (p. 62): la figurazione diventa prefigurazione.

A questo punto possiamo dire che siamo di fronte al passaggio dall’immagine come supporto rappresentazionale all’immagine come dispositivo operazionale (p. 64). Immagini fatte da macchine per macchine. “Immagini che fanno cose (senza l’umano di un tempo e senza il loop)” (p. 67).

Seguono domande davvero scomode. Ad esempio: “saranno le macchine (ovvero, i nuovi intrecci umano-macchinici cognitivi e decisionali all’opera) a discriminare il vero dal falso e non più, in prima istanza, il nostre sensorium, il nostro apparato di sensi e pensieri?” (p. 76).

L’invito di Accoto è quello di guardare non solo ai rischi imminenti ma ai fondamenti e non ai deviamenti del pianeta latente.

E così, ad esempio, parlando di “cybersicurezza, a rischio non è la rete dei dispositivi connessi, come si dice ingenuamente: a rischio è il mondo intero nel suo divenire programmabile. A rischio è il mondo ne suo esser-C, direbbero i programmatori. A rischio, è il mondo e il nostro esser-ci, direbbero i filosofi” (p.78).

Atto quarto: l’atto osceno

“Nella tradizione occidentale esercitare la facoltà dell’azione e il suo potere d’intervento è stato considerato un privilegio dell’umano. … Ora per l’azione si dispiega un nuovo e arrischiato orizzonte macchinico. Infatti dopo essere stata discriminativa e generativa, l’intelligenza artificiale entra nella sua fase agentiva” (pp. 81-82). Il tema dell’agency è cruciale oggi all’incrocio tra digitale, intelligenza artificiale e capacità di far accadere le cose.  Stiamo così passando dal text-to-image al text-to-action con l’emergere di assistenti autonomi.

Sembra un paradosso: la cibernetica (scienza massima del controllo) richiede oggi di essere controllata! (p. 83).

E siamo così alla domanda radicale: “E se il disegno del pianeta latente richiedesse non solo di scrivere nuovi programmi informatici, ma di redigere nuovi programmi politici? Se la questione odierna su come governare la tecnica celasse, in realtà e viceversa, l’urgenza di un rinnovamento delle tecnologie del governare? (p. 83).

L’analisi degli AI agents (agenti artificiali autonomi) conduce così in poche pagine allo studio dell’iper-automazione e del lavoro sintetico sino a giungere al cuore del ragionamento e alla messa in discussione della narcotica e anestetica visione incentrata sullo human in the loop.

Accoto sostiene che “abbiamo bisogno di un altro umanesimo che interpreta in maniera complessa e sofisticata il passaggio epocale di cui stiamo facendo esperienza” (92). Dobbiamo ciò superare l’umanesimo che, accompagnandosi ad una facile deriva anestetica dell’etica, dice all’umano di non preoccuparsi e di rimanere identico a sé, lo rassicura della e nella sua centralità.

E invece umani non si è e non si resta: si diventa. E lo si diventa anche dentro la co-evoluzione tra umani e macchine (93-95).

Così l’AI diventa più scienza dell’umano che scienza della macchina come scrive Kevin Paadraic Donnely .

Comprendere meglio l’agentività richiede poi di fare i conti diversi domini e macro aree. Tra questi

  1. i programmi e i sensori
  2. i dati e gli algoritmi
  3. le piattaforme e i protocolli

E qui si tocca il nervo sensibile della politica: chi fa oggi la politica? Le grandi piattaforme? I parlamenti? Accoto, citando gli studi del giurista Oreste Pollicino che per l’Enciclopedia del diritto ha scritto la voce Potere Digitale, sostiene che nella “nostra contemporaneità iperautomata il potere è sempre meno vestito di umana sembianza perché….. le ingegnerie contemporanee non semplicemente hanno o fanno politica: sono esse stesse politica. (104).

Insomma, “abbiamo bisogno di una teoria politica per il pianeta latente che sappia incorporare una dose significativa di immaginazione (politica)” (108). Una politica che sappia riconoscere parola anche alle cose, ai non umani, agli animali, alle piante.

“Una politica più che umana, fatta di plant politics, animal politics, machine politics, alien politcs” (109).

Questioni complesse e “irritanti, perturbanti, o-scene, ovvero che si collocano fuori dalla skenè, dalla scena, dallo spazio scenico usuale.

Ob-skenè al punto che è legittimo chiedersi, con Jake Goldenfein (giurista della università di  Melbourne e membro dell’ARC –  Centre of Excellence for Automated Decision Making and Society che ha l’obiettivo, in un mondo sempre più automatizzato, di creare le conoscenze e le strategie necessarie per un processo decisionale automatizzato responsabile, etico e inclusivo), Who is the “human” of the Human in the Loop? E se per caso proprio l’umano non sia Lost in the Loop.

Così la chiusura del terzo capitolo è un tuffo alle origini della filosofia, a quel Diogene che pare andasse in giro per la città gridando “Cerco l’uomo” e la volta che qualcuno gli si avvicinò lui reagì malamente lanciandogli contro il bastone gridando: “Ho chiesto uomini, non balordi”.

Eccoci dunque al termine della nostra lettura del saggio di Cosimo Accoto.

Che nelle pagine finali (e nell’epilogo, intitolato “un azzardato orizzontare”) ribadisce quanto sostenuto lungo tutto il volume, ovvero che “se l’intelligenza artificiale è una provocazione di senso, dobbiamo fronteggiarla con l’innovazione culturale. Vale a dire produrre significati nuovi anche ertici e disturbanti, interroganti l’umano e poco accomodante”.

Sono necessari pensieri sovrumani (e quindi anche planetari) capaci di produrre nuovo senso accompagnando questo nuovo divenire-umani. (117).

Siamo chiamati a sondare nuovi orizzonti, ad esplorarli.

Nel trittico che compone questo saggio l’abbiamo più volte incontrata questa nuova condizione umana che fronteggia l’indicibilità della parola sintetica, l’invisualità dell’immagine operativa, l‘inscrutabilità dell’incognita politica. Ma pensare l’impensabile è il nostro destino” (p.124).

Un saggio ricchissimo e urticante, quello di Accoto.

Pieno di nuovi lemmi (ad esempio: intraversioni – p. 37; invisualità -p. 70; catastrofe cross-entropica – p. 87; lavoro sintetico – p. 89; algoritmo come istituzione, p. 99), attraversato da visioni poetiche (tra gli altri: Neruda, D’Annunzio, Eliot, Montale, Szymborska), denso di riferimenti a ricerche attualissime ai confini più estremi della filosofia che prova le vertigini dell’essere interrogata dall’intelligenza artificiale e dalle sue sfide.  

Un pensiero necessario che chiede a ognuno di noi di mettersi in ricerca. Di correre il rischio di pensare. Per essere umani!

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