Ripartire da Benjamin?
La figura di Walter Benjamin1 torna sempre più spesso nel dibattito sull’arte (e sull’estetica) nel tempo dell’intelligenza artificiale. E ciò in primo luogo grazie ad un suo saggio del 1936 intitolato “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”2 che troviamo citato già in apertura nell’interessantissima mostra “L’opera d’arte nell’epoca dell’AI” proposta a Parma dal festival della creatività contemporanea (Parma360festival) emblematicamente intitolato Home Deus3.
Benjamin4, nel testo del 1936, si interroga sul ruolo, sul senso e sulla funzione dell’arte all’interno della società di massa. Ruolo che cambia a motivo dell’apparire di forme artistiche, quali ad esempio il cinema e la fotografia, caratterizzate dal principio della riproducibilità tecnica.
Ciò che viene meno nel tempo della riproducibilità è ciò che Benjamin chiama aura5, ovvero il carattere individuale, la dimensione sacrale, l’unicità, il “qui ed ora” che connota un’originalità unica e irripetibile dell’opera d’arte.
Ciò che vien meno nell’epoca della riproducibilità tecnica è l’«aura» dell’opera d’arte. Il processo è sintomatico; il suo significato rimanda al di là dell’ambito artistico. La tecnica della riproduzione, così si potrebbe formulare la cosa, sottrae il riprodotto all’ambito della tradizione. Moltiplicando la riproduzione, essa pone al posto di un evento unico una serie quantitativa di eventi. E permettendo alla riproduzione di venire incontro a colui che ne fruisce nella sua particolare situazione, attualizza il riprodotto. Entrambi i processi portano a un violento rivolgimento che investe ciò che viene tramandato – a un rivolgimento della tradizione, che è l’altra faccia della crisi attuale e dell’attuale rinnovamento dell’umanità. Essi sono strettamente legati ai movimenti di massa dei nostri giorni. Il loro agente più potente è il cinema. Il suo significato sociale, anche nella sua forma più positiva, e anzi proprio in essa, non è pensabile senza quella distruttiva, catartica: la liquidazione del valore tradizionale dell’eredità culturale.
Il fatto che l’opera d’arte fotografica e cinematografica non conosca la distinzione tra originale e copia obbliga così a rimettere in discussione le categorie estetiche: viene meno il principio di unicità e originalità, viene trasformata la modalità percettiva, viene messo in discussione il concetto di autore e muta il rapporto tra arte e realtà. Ad esempio l’opera d’arte filmica, il suo essere effetto del montaggio e di altri artifici, rivela il carattere «costruito» della realtà sociale.
Moltiplicando la riproduzione al posto della sua presenza unica essa mette la sua presenza in massa E permettendo alla riproduzione di venire incontro al fruitore nella sua specifica situazione, essa attualizza ciò che viene riprodotto. Entrambi questi processi portano ad un violento sconvolgimento di ciò che viene tramandato: a uno sconvolgimento della tradizione.
Nel corso di lunghi periodi storici, insieme al modo di esistere complessivo delle collettività umane, si trasforma anche la modalità della loro percezione (…). La percezione umana – il medium in cui essa si realizza – è condizionato in non solo in senso naturale ma anche non senso storico.
Ma nell’istante in cui, nella produzione artistica, viene meno il criterio dell’autenticità, allora anche l’intera funzione sociale dell’arte si trasforma. Al posto della sua fondazione nel rituale si instaura la fondazione su un’altra prassi, ossia il suo fondarsi sulla politica.6
Riflessioni, quelle di Benjamin, che oggi interpellano e sfidano il significato dell’arte al tempo dell’intelligenza artificiale. Tempo in cui qualcuno, legittimamente, si chiede se si possa chiamare arte un prodotto in cui il prompt sostituisce il pennello.
Fare arte con l’AI: il caso Edmond de Belamy
Teoricamente si può discutere a lungo se l’intelligenza artificiale possa effettivamente produrre opere d’arte. Tuttavia, empiricamente, esistono già lavori realizzati con l’intelligenza artificiale che vengono trattati come opere d’arte.
Il primo e più famoso caso è costituito dal dipinto Edmond de Belamy, un’opera d’arte realizzata dal collettivo parigino Obvious, che ha addestrato un’AI in modo che potesse realizzare un quadro convincente, che nella sua forma finale porta in un angolo a destra la “firma” dell’autore, ovvero il codice dell’algoritmo che ha generato l’opera.
Il lavoro è stato battuto all’asta da Christie’s il 28 ottobre 2018 e venduto per circa 430 mila dollari. Il collettivo parigino avrebbe “addestrato” il sistema di AI con circa 15 mila dipinti realizzati tra il XIV e il XX secolo.
Al contrario, ad esempio, negli Stati Uniti l’ufficio per il copyright ha stabilito che l’opera di Jason Matthew Allen, generata grazie a Midjourney7, e intitolata «Théâtre D’Opéra Spatial» non possa essere protetta da copyright (si veda il link e link).
Arte automatica collettiva?
Il sito CarraroLab ha dedicato, a gennaio 2024, un interessante articolo (L’artista e l’intelligenza artificiale) al tema AI e Arte presentando anche una rassegna dei numerosi artisti contemporanei che hanno abbracciato da tempo l’intelligenza artificiale come strumento creativo esplorando nuove possibilità espressive e concettuali.
CarraroLab azzarda anche una definizione per dare un nome alle opere create dall’intelligenza artificiale generativa, definendole forme d’arte automatica collettiva.
Automatica, in quanto evidentemente frutto di un automatismo, prodotta da un automa digitale, e non dall’attività psichica e corporea di un individuo.
Collettiva in quanto la materia di cui è fatta è l’immaginario collettivo, una smisurata banca dati di immagini create da milioni di individui.
La cosa interessante è che l’articolo ricorda che non siamo di fronte alla prima forma d’arte automatica collettiva e a riprova cita diversi esempi.
Uno, emblematico, è costituito dai “cadaveri squisiti” surrealisti, un gioco intellettuale che consiste nel creare un testo o un’immagine con un lavoro di gruppo in cui però ogni partecipante ignora i contributi degli altri.
Altri esempi citati sono Paul Klee, i surrealisti, Salvator Dalì e il suo “metodo paranoico critico” sino a Keith Haring, che tuttavia non fonda il suo automatismo nell’inconscio individuale ma, da uomo dell’epoca dei mass media, sull’inconscio collettivo.
Continua CarraroLab:
Proprio il ruolo dell’inconscio, dell’automatismo, dell’interazione creativa con un’”altra mente” diversa dalla coscienza dell’artista, è quindi un tratto caratterizzante dell’arte contemporanea, da cui possiamo trarre elementi utili per comprendere la fase attuale, in cui gli artisti interagiscono con un’”altra mente”, anche in questo caso non individuale, in qualche modo interna all’artista, ma collettiva, esterna a lui. Lo smisurato, da un uomo non intellegibile, database universale di immagini su cui si addestra l’intelligenza artificiale, e da cui trae i contenuti, può essere effettivamente definito “inconscio collettivo”. Anche gli opachi processi combinatori con cui l’intelligenza funziona hanno delle analogie con il “lavoro onirico” con cui Sigmund Freud nel 1899 definisce il processo inconscio di generazione delle immagini nel sogno. Per comprendere a fondo l’essenza dell’arte generativa non possiamo prescindere dal processo di generazione delle immagini compiuto dall’intelligenza artificiale, dal suo rapporto con la realtà e con l’immaginazione, e confrontarlo con i processi di ideazione artistica moderni.
Giova qui ricordare che proprio Walter Benjamin, 90 anni fa, parlava di “inconscio ottico”, disvelato dalla fotografia e dal cinema così come la psicanalisi disvela l’inconscio pulsionale.
E, continuava, “tra i due tipi di inconscio, esistono legami strettissimi: i molteplici aspetti che l’apparecchiatura di ripresa può carpire della realtà si collocano infatti, in gran parte, al di fuori del normale spettro delle percezioni sensoriali”8.
Uncanney valley e il perturbante
Nel 1970 il professore di robotica Masahiro Mori utilizzò per la prima volta il concetto di uncanney valley per descrivere la reazione che un umano ha di fronte ad un robot umanoide con forti sembianze umane. Reazione emotiva che dapprima è positiva ed empatica ma che poi, raggiunta una determinata soglia, si tramuta rapidamente in una forte repulsione.
Non è sfuggito agli studiosi il fatto che uncanney9 sia il termine inglese che traduce il saggio di Sigmund Freud del 1919 intitolato “Il perturbante”, in tedesco Das Unheimliche10, ovvero “quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare”. O anche: lo sgomento che si avverte quando una cosa ‒ o una persona, un’impressione, un fatto o una situazione ‒ viene avvertita come familiare ed estranea allo stesso tempo, generando angoscia unita a una sgradevole sensazione di confusione ed estraneità11
Ha così buon gioco, oggi, il filosofo Federico Campagna che, nel testo emblematicamente titolato “Un sermone per i genitori di giovani macchine”, scrive “forse, inconsapevolmente, l’orrore con cui spesso guardiamo agli scenari distopici in cui le macchine si emancipano potrebbe derivare dalla nostra cattiva coscienza quando guardiamo noi stessi”.
Filippo Lorenzin, direttore artistico del Museum of Contemporary Digital Art (MoCDA), ha spiegato a Il Post che il modello di DALL-E12 “crea un cortocircuito nel nostro modo di intendere la creatività”. Ciò che è perturbante non è tanto il fatto che “l’intelligenza artificiale calcola il risultato visivo del prompt testuale, bensì il fatto che sia proprio quello lì. Tra infinite possibili varianti, ha determinato una singola presentazione, suggerendo che per colori, stile, aspetto e articolazione sia la più consona per mostrare ciò che le è stato richiesto”.
“Da una parte è interessante perché, come tutti i materiali calcolati da intelligenze artificiali, sono risultati creati sulla base delle preferenze e del background di coloro che l’hanno programmata. Dall’altra, – continua – è prova di quanto unidimensionale sia l’orizzonte estetico contemporaneo, dove stili, tecniche e soggetti perdono le connotazioni che li definiscono per diventare “tag””, ovvero etichette che contengono le loro informazioni di base. In tal modo le intelligenze artificiali analizzano, catalogano, smontano e rimontano le opere che vengono loro assegnate, per poi rispondere ai prompt ricevuti.
Le questioni chiave nel rapporto AI/arte
Vanna Santoni, in un interessante articolo pubblicato da Internazionale (Intelligenza artificiale e arte – Internazionale del 17/02/2023) evidenzia tre questioni chiave del rapporto AI / arte
- l’indistinguibilità: un’immagine di Midjourney è già in molti casi indistinguibile da quelle realizzate da un essere umano.
- I diritti d’autore: di chi sono i diritti di un’opera realizzata con AI?
- Chi è l’autore? Il prompter, ovvero cui che digita il testo di partenza e preme il tasto invio, è un’artista?
Come si può vedere si tratta di quesiti trasversali che riemergono in qualunque dibattito e discussione sull’intelligenza artificiale e in particolare sula GenAI. E questo a prescindere, ad esempio, dalla pluralità di tipologia di “artista” cui fa riferimento Giulio Lughi13 che distingue tra dilettanti, professionisti, artisti, istituzioni.
Segnalo qui anche le interessanti riflessioni di Maria Grazia Mattei14 (critica d’arte e presidente di MEET, il centro internazionale di Cultura Digitale nato con il supporto di Fondazione Cariplo che promuove la tecnologia come una risorsa per la creatività) che costituiscono ipotesi di risposta alle domande poste da Vanna Santoni.
Lughi – rispondendo alla domanda “L’Intelligenza Artificiale produce arte?” ammette però che forse occorre riconoscere che la domanda non ha molto senso, in quanto banalizza e generalizza un fenomeno molto più complesso.
La definizione dell’arte, infatti, non dipende solo dalle caratteristiche tecniche dell’opera d’arte “in sé”, né dal punto di vista soggettivo dell’autore/artista; dipende anche e soprattutto dalla ricezione, cioè dalla risposta estetica che suscita nel pubblico (e nel mercato), come pure dal contesto culturale in cui i processi di comunicazione artistica avvengono. (…) Il mondo dell’arte non è un blocco unitario ma un universo ricco di articolazioni e sfaccettature, e l’arte non è un’entità metafisica fuori dallo spazio e dal tempo (secondo alcuni lo è) ma è costituita da una serie di pratiche umane che si nutrono delle più diverse esperienze concrete.
Ecco perché chiedersi se l’Intelligenza Artificiale produca arte è una domanda troppo generale, anzi troppo generica, oltretutto fortemente condizionata dagli schemi interpretativi del passato (McLuhan definiva questo atteggiamento “guidare guardando nello specchietto retrovisore“): in momenti di transizione come questo, di fronte alla comparsa di una tecnologia dirompente, meglio muoversi pragmaticamente e valutare volta per volta l’effettiva rilevanza estetica e socio-culturale di quelle che continuiamo a chiamare – per convenzione e comodità, ma ben consapevoli della loro sfuggente identità – “opere d’arte”15.
Cambiare lo sguardo….
“Il nostro periodo culturale è caratterizzato da una scala di produzione e circolazione senza precedenti, nonché da un’integrazione globale nella produzione, nella ricezione e nel riuso culturale. Le persone in tutto il mondo creano, condividono e interagiscono con miliardi di artefatti digitali ogni giorno. Abbiamo bisogno di nuovi metodi per vedere la cultura nella sua nuova scala, velocità e connettività, combinando approcci sia qualitativi sia quantitativi per rivelare la piena variabilità di questo nuovo ecosistema senza ridurlo a un mero insieme di categorie”.
Così scrive Lev Manovich in Estetica dell’intelligenza artificiale16 e il curatore del volume – Valentino Citricalà – così commenta: “se, come è noto, ogni domanda orienta già la formulazione di una risposta, è necessario iniziare a rivedere le domande di partenza” (pag.9).
…e chiedersi chi è questo umano che si vuole nel loop….
Cosimo Accoto si caratterizza per sostenere proprio la necessità di cambiare sguardo per tentare di leggere in modo inedito l’intelligenza artificiale intesa come una provocazione di senso planetaria17. Infatti, continua Accoto, “se l’AI non è né prodotto né servizio, ma fabbrica, dobbiamo allargare la nostra prospettiva strategica oltre le metafore tradizionali”.
E la metafora (consolatoria ed anestetizzante) che dovremmo forse iniziare ad abbandonare o perlomeno a problematizzare riguarda il concetto di human in the loop.
Con radicalità Accoto, allora, si chiede18:
Chi è, cos’è, da dove viene e come si diviene questo fantomatico “umano” che tutti vorrebbero al centro, in controllo, nel giro? Si dice che abiti in maniera prepotente e supponente il pianeta Terra. I geografi e gli antropologi contemporanei interrogati faticano a trovarne traccia. Eppure c’è: ma con quali modi di esistenza e di divenienza? Provocazione: che sia anch’esso e esso stesso allora, in fondo, solo una ‘persona ficta’19?
La mostra di Parma: L’opera d’arte nell’epoca dell’AI
Curata da Chiara Canali,Rebecca Pedrazzi (autrice del fondamentale saggio “Futuri possibili. Scenari d’arte e Intelligenza Artificiale”20) e Davide Sarchioni, la mostra “L’opera d’arte nell’epoca dell’AI” sfida il visitatore e confrontarsi con i quesiti di fondo dell’estetica e dell’arte al tempo dell’AI che ho cercato di riassumere in questo breve saggio.
Il percorso della mostra permette di incontrare le proposte di diversi artisti e artiste che interagendo con l’intelligenza artificiale presentano opere davvero stupefacenti, curiose, affascinanti, uncanney e “bellissime” (si potrà ancora dire?).
Tra queste, ad esempio, la travolgente Snow White Overdrive 2023, unaComputer animation + AI di Max Papeschi con Michele-Ronchetti, che ha calamitato la mia attenzione e generato davvero enorme stupore e curiosità.
Oppure progetti performativi e multimediali quali HERbarium – Dancing with an AI di Kamilia Kard, o Reformed A.I. n.13, installazione multimediale e polisensoriale, interattiva e sensibile al suono, con uso di IA, realizzata in 3D con Unreal Engine da Lino Strangis Reformed A.I. n.13.
E poi stupende immagini/ritratti di donna che accompagnano questo articolo.
Crea il tuo sogno….
E, per chiudere, non posso che segnalare un’opera molto particolare presente in mostra che ci permette di “chiudere il cerchio” del ragionamento sin qui svolto. Si tratta di un’opera cosi composta:
1 – in una stanza è posizionato un comodo letto con baldacchino e sul quale, a soffitto, è collocato un enorme schermo video
2 – Su un mobile di fronte è posizionato un tablet dove è richiesto di scrivere / descrivere il sogno che si desidera sognare.
3 – Scritto il testo ci pensa poi l’intelligenza artificiale generativa a creare un “video” che il fruitore potrà vedere stando disteso nel letto a baldacchino.
…perturbante, direbbe Freud… Insomma: una mostra imperdibile
La mostra si chiude il 19 maggio e nei due giorni precedenti (17 e 18) si tengono due importanti appuntamenti di riflessione e approfondimento. Il 17 maggio, al Palazzo del Governatore, tiene una lectio magistralis Derrick De Kerckhove mentre il giorno successivo è previsto un convegno su Arte e AI con la presenza di moltissimi esperti.
Info su https://parma360festival.it/