I figli del bosco

Ci sono casi che non interrogano la testa ma lo stomaco. La cosiddetta casa nel bosco è uno di questi. Non perché sia un caso eccezionale, ma perché tocca il nervo più scoperto di tutti: i bambini. E quando entrano in scena i figli, la domanda non è più “che società vogliamo?”, ma “di chi sono i figli?”. A chi appartengono i bambini? Alla famiglia, allo Stato, a se stessi?

Intorno a questa vicenda si sono accumulate centinaia di prese di posizione, quasi tutte urlate, quasi tutte ideologiche. Ed è proprio questo il punto: la politica ha divorato la questione, impedendo qualsiasi riflessione autentica. Si è parlato di bambini senza parlare per i bambini.

Da una parte, una tradizione libertaria — spesso evocata più che pensata — sostiene che lo Stato non dovrebbe mai intervenire nella sfera familiare, in nome della libertà individuale. I figli, in questa visione, sono una sorta di estensione della volontà dei genitori: chi li mette al mondo decide come crescerli. Punto. Dall’altra, le destre soffiano sul fuoco della pancia collettiva, denunciando “lo Stato che ruba i figli”, trasformando ogni intervento pubblico in una violenza istituzionale. Una narrazione che, guarda caso, ignora sistematicamente le centinaia di migliaia di bambini che subiscono abusi, trascuratezza, deprivazioni profonde proprio dentro le mura domestiche.

Qui sta l’inganno: difendere astrattamente la famiglia significa spesso legittimare il peggio. Una politica che non tocca i figli “per principio” è la stessa che condona gli abusi, chiude un occhio sull’evasione fiscale, predica sicurezza mentre prepara il riarmo. La famiglia diventa un totem intoccabile, anche quando è un luogo di violenza, ignoranza, annullamento.

Ma dall’altra parte il quadro non è migliore. Le sinistre — o ciò che ne resta — appaiono disorientate, incapaci di uscire da una logica puramente amministrativa del problema. Mancano parole, manca una visione, manca il coraggio di dire che il tema dei bambini non è un terreno di scontro politico ma una questione pedagogica, filosofica, antropologica, che viene prima di ogni schieramento.

E allora la discussione si riduce a slogan:
“I bambini non sanno leggere né scrivere, è giusto?”, chiede lo Stato.
“I bambini giocano liberi nel bosco, è sbagliato?”, rispondono i genitori.

Entrambe le domande sono mal poste. Perché la libertà non è l’opposto dell’educazione, così come l’istruzione non è sinonimo di addomesticamento. Un bambino che non sa leggere non è “libero”: è privato di uno strumento fondamentale per interpretare il mondo. Ma un bambino che cresce in un ambiente rigidamente normato, soffocato da aspettative e performance, non è educato: è addestrato.

In mezzo a queste due derive — il libertarismo astratto e il conservatorismo identitario — riemerge inevitabilmente Jean-Jacques Rousseau, il grande fantasma di ogni dibattito sull’educazione. Nell’Émile, Rousseau pone una domanda ancora scandalosa: e se fosse la società a corrompere il bambino, e non il contrario? Per lui, l’educazione dovrebbe proteggere l’infanzia dall’invasione prematura delle norme sociali, lasciando che il bambino cresca secondo i propri tempi, a contatto con la natura, lontano dalle gerarchie artificiali.

Rousseau non propone l’ignoranza, ma una sospensione: non imporre troppo presto il mondo degli adulti a chi adulto non è. Eppure, anche qui, il rischio è evidente. L’educazione “naturale” non esiste mai davvero: qualcuno sceglie sempre che cosa togliere e che cosa lasciare. Anche il ritiro dal mondo è una scelta culturale, non un vuoto neutrale.

Il vero errore collettivo è aver applicato un metro politico a una questione che richiede innanzitutto un metro pedagogico. Non si tratta di stabilire chi vince tra Stato e famiglia, ma di chiedersi: che cosa è giusto per questi bambini, qui e ora?

È giusto che qualcuno decida per loro?
Se la risposta è sì — e in una società reale non può che esserlo — allora dobbiamo accettare che esistano due responsabilità intrecciate: la famiglia e lo Stato. È questo il fondamento dello Stato di diritto e del contratto sociale contemporaneo. I genitori non sono proprietari dei figli, lo Stato non è un padrone: entrambi sono garanti. Garanti di diritti che i bambini non possono ancora esercitare da soli.

Se invece la risposta fosse no — se immaginassimo davvero una società libertaria coerente — allora dovremmo spingerci fino in fondo. L’educazione dovrebbe essere la più libera possibile, senza imposizioni di stile di vita, di valori precostituiti, di modelli identitari. I bambini dovrebbero essere messi nelle condizioni di scegliere, non di replicare. Ma attenzione: libertà non significa abbandono. Libertà significa accesso, possibilità, strumenti. Non isolamento nel bosco, né chiusura dentro una gabbia ideologica.

La verità scomoda è che i bambini non sono un campo di battaglia. Non sono un simbolo, non sono una bandiera, non sono una proprietà privata né un problema di ordine pubblico. Sono soggetti in formazione, fragili e potentissimi insieme. Ogni volta che li usiamo per rafforzare una tesi politica, li tradiamo.

Forse il caso della casa nel bosco non ci chiede di scegliere da che parte stare, ma di fermarci. Di abbassare il volume. Di smettere di parlare a nome dei bambini e iniziare a chiederci cosa significhi davvero accompagnarli verso il mondo.

Crescere non è un processo da delegare a schemi politici o ideologici, ma un’esperienza continua, concreta, che va accompagnata con attenzione, strumenti e cura. Non si tratta di imporre valori o modelli, ma di sostenere lo sviluppo integrale del bambino.

“Education is not preparation for life; education is life itself.”
John Dewey

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