S. alza la mano in classe e sembra avere una domanda urgente:
«Possiamo fare una lezione su Gaza?»
Finalmente, penso d’istinto. Ma subito dopo una parte di me si irrigidisce. Me l’aspettavo, forse la temevo. Quanto è giusto parlare di attualità storica nelle nostre aule, e nelle nostre case con i nostri figli?
Ho sempre cercato di mantenere una certa riservatezza in famiglia quando si tratta di politica: l’idea di poter influenzare mia figlia in questo campo mi disturba. Mi piacerebbe che fosse lei, liberamente, a farsi un’idea del mondo. Ma quando mi ha chiesto che cosa significhi “Gaza” e, soprattutto, perché a scuola non se ne parli, ho capito che il silenzio non è più un’opzione. Penso anche alla difficoltà di una madre e di un padre che si trovano a raccontare Gaza a bambini più piccoli, come si può rappresentare l’orrore con tinte così fosche? D’altronde sarebbe ormai urgente inserire almeno un’ora di educazione alla pace in ogni scuola.
C’è una soglia oltre la quale non ci si può più sottrarre alla riflessione, né al confronto. Certo, ogni educatore deve mantenere un alone di equilibrio e di rispetto, ma qui non si tratta di neutralità. Come scrive Alessandro Baricco nel suo ultimo contributo, “Gaza è divenuta molto di più che una situazione geopolitica su cui prendere posizione: oggi è il nome di un certo modo di stare al mondo”, un prisma attraverso cui guardare le fratture del mondo e il modo in cui le raccontiamo.
Ecco il punto: il miracolo dei giovani nelle piazze di questi giorni sta proprio qui. Ci chiedono di fermarci, di cambiare narrazione, di ridefinire i paradigmi. Molti amici in questi giorni mi hanno riferito la stessa frase: “c’erano molti giovani e giovanissimi in piazza, come non si vedeva da tempo”, quasi a stupirsi di una riappropriazione significativa dello spazio pubblico.
Non è vero che i ragazzi si disinteressano alla politica: al contrario, vogliono la politica con la “P” maiuscola, quella che mette al centro la giustizia, la dignità, la cura del mondo. Solo che non la trovano più nei linguaggi e nelle forme che noi adulti continuiamo a ripetere loro. Inoltre, l’inondazione prodotta da un’informazione mirata a legittimare la guerra come ente ontologico e l’hate speech come unico canale politico di dialogo confonde parecchio i più giovani. Viviamo in un tempo in cui lo Stato, che nell’accezione aristotelica dovrebbe mirare alla felicità dei cittadini, fatica persino ad assicurare i diritti di base — nella sanità, nella scuola, nel lavoro. Eppure, i giovani continuano a chiedere spazi di senso, luoghi in cui la partecipazione non sia solo testimonianza, ma costruzione.
Parlando spesso con i ragazzi avverto forte anche questa sensazione Non bastano più solo i cortei, servono nuove forme di partecipazione. Oggi i giovani chiedono una politica che si costruisca nel dialogo e non nello scontro, attraverso nuove forme di partecipazione come i debate, i fishbowl, i world café, dibattiti dove si impara ad ascoltare opinioni diverse, gli hackathon sociali e i progetti di service learning, laboratori in cui si progettano soluzioni per la comunità: esperienze che trasformano la discussione in ascolto, la protesta in proposta e la cittadinanza in un esercizio quotidiano di responsabilità condivisa. Sono pratiche che educano alla complessità, che spingono a ragionare, a capire le ragioni dell’altro.
Nelle piazze di Gaza di questi giorni molti giovani ci restituiscono anche un altro messaggio molto forte che non ha coordinate solo geografiche: non si limitano più a subire un mondo in cui sono considerati principalmente clienti o consumatori. Rifiutano il modello ipercapitalista che riduce la vita a mercato e profitto, e cominciano a immaginare scenari alternativi, in cui il senso della vita non si misura solo in beni materiali. Cercano forme di esistenza socialmente diverse, in cui il lavoro, la cultura, la relazione e la cura del bene comune diventano parte integrante di un progetto di vita. Come suggerisce John Dewey, l’educazione e la partecipazione attiva non servono solo a formare cittadini informati, ma a creare individui capaci di contribuire al miglioramento concreto della società, immaginando modelli di vita e comunità più equi e sostenibili.
Allo stesso modo, in classe o a casa, parlare di Gaza dovrebbe essere un esercizio di ascolto e di metodo e di contenuti. Si può partire dai fatti — dalle mappe, dalla storia, dalle voci di chi vive il conflitto — per poi passare alle emozioni, alle domande, alle paure.
L’obiettivo è insegnare a comprendere cosa succede quando la ragione si perde. Far vedere come le parole costruiscono il mondo, come ogni narrazione può essere parziale, e come il compito dell’educazione sia quello di aprire finestre, non chiuderle.
Educare alla parola, oggi, significa educare alla responsabilità: scegliere le parole giuste per non ferire, per capire, per costruire un linguaggio politico nuovo, capace di includere e non di escludere.
Forse la lezione su Gaza si può davvero fare — e anzi, si deve fare.
Non sarà solo una lezione di storia o di geopolitica, ma una lezione di umanità, la humanitas che contraddistingueva gli antichi. Un momento in cui adulti e ragazzi si siedono allo stesso tavolo per provare a capire insieme il mondo, senza paura delle domande difficili.