Quel pasticciaccio brutto dei compiti a casa

C’è stata una mattina, una qualunque mattina di quelle in cui entri in classe convinto che la filosofia sia ancora un artigianato lento, fatto di penna, carta e pensiero, in cui ho capito che il mondo della scuola era già cambiato senza chiedere il permesso.
Avevo assegnato ai ragazzi una semplice argomentazione da svolgere a casa: una tesi, una controtesi, una confutazione. Niente di trascendentale, un esercizio di base per allenare l’intelletto.

Il giorno dopo, però, mi sono trovato davanti a un fenomeno letterario degno di nota: venticinque elaborati impeccabili, tutti scritti in modo così raffinato da farmi sentire improvvisamente non più un insegnante, ma un giurato del Premio Strega. Citazioni colte, struttura cristallina, una lingua che “manco Umberto Eco”. E lì mi è sorto un dubbio, di quelli che non puoi zittire: davvero li ho fatti diventare così bravi? O è cambiato proprio tutto?

La verità mi è arrivata addosso con la delicatezza di un mattone.
I compiti a casa — quelli che molti di noi hanno conosciuto, odiato, amato o sopportato — non esistono più come una volta. Non nel senso che non vengono più assegnati, ma nel senso che non abitano più lo stesso universo pedagogico.

Negli anni ’80 fare i compiti voleva dire aprire un libro, chinarsi su un quaderno e lottare con sé stessi finché la soluzione non arrivava.
Oggi, invece, basta una finestra del browser: testi parafrasati in pochi secondi, esercizi svolti, temi generati, guide passo passo. La casa non è più il luogo dell’apprendimento solitario: è un hub di strumenti potentissimi, disponibili h24 e capaci di trasformare ogni richiesta scolastica in qualcosa che può essere… esternalizzato.

Non è questione di “imbrogli”, ma di contesto. E questo contesto chiede agli adulti — noi insegnanti per primi — di fare qualcosa di più difficile che proibire: capire.

Come spesso succede in Italia, il dibattito pubblico si è spaccato in due bande: da un lato quelli che invocano l’abolizione totale dei compiti, dall’altro i difensori della tradizione, convinti che ogni rinuncia sia una resa culturale. Il libro Basta compiti! di Maurizio Parodi ha scosso l’opinione pubblica ricordando quanto l’eccesso di attività domestiche possa essere faticoso e a volte inutile; Parodi, si noti bene, è un dirigente scolastico e cita più volte gli insegnamenti di Gianni Rodari. Raffaele Mantegazza, professore della Bicocca di Milano di cui ho avuto la fortuna di essere allievo, al contrario, invita a non buttare il bambino insieme all’acqua sporca, perché i compiti — quando sensati — possono essere uno spazio di crescita. E insiste su un punto che dovrebbe essere scolpito in ogni sala docenti: i compiti non servono a misurare, ma a mettere in moto qualcosa.
Non sono la “verifica a distanza” di ciò che gli studenti hanno capito, ma il tentativo di far nascere nuovi dubbi, nuovi collegamenti, nuove domande.

È un’idea radicalmente diversa da quella che molti di noi, docenti compresi, hanno interiorizzato.
Perché se il compito è un ponte, allora non può essere un ponte attraversato in solitudine, sotto il peso dell’ansia o con l’unica opzione di cliccare “generami il testo”.

Eppure, a ben guardare, non è una questione di quantità.
È una questione di qualità.
O meglio: di forma di vita.

Nelle scuole Italiane siamo bravissimi a insegnare contenuti, mediamente bravi a spiegare competenze e quasi del tutto incapaci di insegnare come si studia. Il grande assente è il metodo di studio.
Diamo per scontato che esista un unico modo legittimo: leggere, sottolineare, ripetere.
Chi non lo fa, viene percepito come “uno che non impara”.

Eppure, Mantegazza lo ripete spesso: non esiste un modo solo per imparare. Esiste piuttosto una pluralità di strade, che dipendono dal corpo, dalla memoria, dall’immaginazione di ciascuno.
Il compito, allora, dovrebbe essere una palestra di metodi, non una punizione.
Uno spazio in cui capire se è meglio costruire mappe, registrare audio, sintetizzare, rielaborare, discutere, creare collegamenti.
Un luogo di sperimentazione, non una prova di sopravvivenza.

Il paradosso è che pretendiamo originalità, autonomia, spirito critico… ma poi assegniamo esercizi pensati per studenti che dovrebbero essere già autonomi, critici e originali.
La casa diventa così il teatro di una contraddizione: chiediamo ai ragazzi ciò che non li abbiamo mai davvero aiutati a costruire.

Molti ragazzi fanno i compiti in condizioni difficili, tra rumore, solitudine educativa, assenza di supporti. Altri ricorrono all’AI non per pigrizia, ma perché non sanno come affrontare un compito complesso da soli. E allora sì, certo che l’intelligenza artificiale può diventare una scorciatoia: non per malafede, ma per necessità.

Forse dovremmo smettere di chiederci se i compiti vadano aboliti e iniziare a chiederci dove e come gli studenti possono davvero imparare.

Ci sono Paesi europei dove il tempo di studio individuale a casa è minimo e dove le scuole restano aperte il pomeriggio. Non per riempire le giornate dei ragazzi, ma per accompagnarli. Laboratori, tutoraggi, spazi tranquilli: tutto ciò che serve per trasformare quello che oggi chiamiamo “compito” in un’occasione di crescita reale, non in un ostacolo da superare in solitaria.

In un ambiente così, l’AI non fa paura; diventa uno strumento. Se uno studente scrive in modo troppo colloquiale, posso mostrargli in un attimo come trasformare il testo in un linguaggio più formale. Se la struttura del ragionamento è debole, l’AI può evidenziarla. Non è un modo per automatizzare l’apprendimento: è un modo per renderlo immediato, visibile, comprensibile.

Certo, esistono anche le derive. App che scrivono i compiti al posto degli studenti, che imitano la loro voce, perfino la loro grafia. Ma demonizzare gli strumenti significa non comprenderli. Il vero antidoto non è il divieto, è la progettazione. Un compito ben pensato è un compito che non può essere “fatto fare”: perché chiede al ragazzo di osservare, interpretare, agire nel proprio contesto.
L’AI si copia; la propria esperienza no.

Forse è arrivato il momento di cambiare anche il nome ai compiti.
Quel termine sa di fatica forzata, di ripetizione, di un dovere lontano dalla vita. E invece potremmo pensare a parole che suggeriscano esplorazione, crescita, responsabilità: prove di realtà, missioni di conoscenza, laboratori personali. Piccoli segnali che mostrano come l’apprendimento non sia una lista di esercizi, ma un dialogo con il mondo.

La scuola non ha bisogno di abolire i compiti, e non ha bisogno di moltiplicarli. Ha bisogno di ripensare il senso del tempo scolastico e di quello che accade oltre il cancello.
Ha bisogno di riconoscere che i ragazzi vivono in un’epoca in cui l’accesso all’informazione è immediato, ma la capacità di orientarsi non lo è.
Ha bisogno, forse più di ogni altra cosa, di un nuovo patto educativo: meno basato sulla quantità, più sulla vicinanza.

Quel giorno, davanti ai temi perfetti dei miei piccoli “Eco”, ho capito che non eravamo più nella scuola di ieri. E che la domanda non è più: compiti sì o compiti no?
La domanda vera è: come possiamo, tutti insieme, accompagnare gli studenti dentro questo cambiamento epocale?

Micro Bibliografia

Parodi, M., Basta compiti!, Einaudi, Torino, 2017.
Kohn, A., The Homework Myth, Da Capo Press, Cambridge (MA), 2006.
Cooper, H., The Battle Over Homework, Corwin Press, Thousand Oaks (CA), 2001.
Mantegazza, R., Pedagogia resistente (per capitoli sul tema), Mimesis, Milano–Udine, 2017.
Benadusi, L., Educazione e società, Il Mulino, Bologna, 2005.
Lorenzoni, F., La scuola possibile, Sellerio, Palermo, 2015.

ARTICOLO DI
CONDIVIDI
ARTICOLI CORRELATI
Tra slogan ideologici e paure strumentalizzate, il dibattito politico sulla famiglia nel bosco finisce per oscurare ciò che conta davvero: il punto di vista dei bambini e i loro diritti. Educare non significa né abbandonare né addestrare, ma accompagnare: offrire strumenti, possibilità e cura,
Opportunità e sfide dell'AI per la scrittura: la ricerca firmata dai professori Dario Brusco e Roberto Cappuccio, pensata per dare strumenti utili al mondo dell'educazione
Le intelligenze artificiali generative ridefiniscono il nostro rapporto con linguaggio, pensiero e identità: una sfida teorica che, tra semiotica ed enattivismo, invita a ripensare cosa significhi oggi essere umani.