Ragazzi di vita – Spazi dell’educare, sguardi per riflettere sul mondo giovanile, pensieri e pratiche per “stare” con i ragazzi oggi. N. 10 – I nomi degli invisibili
Oltre l’accoglienza: per un’educazione interculturale reale
“Perché nella teoria è così: ci chiedete di alzare la voce, di partecipare, combattere per i nostri diritti, per un mondo migliore. Poi è proprio a scuola che capiamo subito. Le promesse che ci avete fatto con le canzoni delle elementari, i cartelloni con scritto sopra siamo tutti uguali, tutti cittadini del mondo non combaciano con quello che ci è successo dopo.”
Rimango stordito da questo periodo tagliente che mi produce un sapore amaro in bocca. E’ così.
Il bellissimo e provocatorio libro Tra i bianchi di scuola di Esperance Hakuzwimana (mi raccomando, impariamo a pronunciare bene questo nome e tutti gli altri, non è così impossibile, senza i loro nomi reali i ragazzi non esistono) ci restituisce uno specchio impietoso delle nostre politiche di integrazione, troppo spesso deficitarie, costruite su logiche emergenziali o paternalistiche. E ha ragione. Perché l’intercultura non si fa con i moduli di accoglienza o le giornate tematiche: si fa, ogni giorno, nelle parole, nelle aule, nelle leggi.
C’è una parola che, più di altre, rivela il limite del nostro discorso sull’intercultura: accoglienza.
Un termine che, pur animato da buone intenzioni, porta con sé una distanza implicita — quella tra chi accoglie e chi viene accolto, tra chi sta “a casa” e chi arriva “da fuori”. Ma davvero è ancora così? O la nostra casa comune si è già trasformata, da tempo, in qualcosa di più complesso e fertile: una società multiculturale, cosmopolita, che però fatica a riconoscersi tale?
Prendiamo proprio il linguaggio.
Dire straniero è già una distanza. Dire migrante restituisce almeno il senso di un movimento, di una storia. Ma anche termini come integrazione e accoglienza restano ancorati a un paradigma sbilanciato, in cui c’è sempre qualcuno che concede e qualcun altro che deve “adeguarsi”. È una narrazione stanca, che ignora il dato di fatto: i ragazzi e le ragazze che popolano le nostre scuole non sono ospiti, ma parte viva del Paese.
Nell’interessante libro “Residenti migranti” della filosofia Donatella Di Cesare è scritto: «Il con-implicato nel coabitare va inteso nel suo senso più ampio e profondo … non si tratta di un rigido stare l’uno accanto all’altro. … In un mondo attraversato dal concorrere di tanti esili, coabitare significa condividere la prossimità spaziale in una convergenza temporale dove il passato di ciascuno possa articolarsi nel presente comune in vista di un comune futuro».
Eppure questo sguardo diseguale affonda le sue radici più lontano, nel cuore stesso del colonialismo.
Per secoli l’Occidente ha imposto la propria visione del mondo, presentandola come universale, naturale, superiore. Ha esportato modelli, lingue, confini, e insieme ha interiorizzato un modo di guardare “l’altro” come diverso, inferiore, bisognoso di essere civilizzato. Quello sguardo non è mai davvero tramontato: lo ritroviamo oggi, in forma più sottile, nelle politiche migratorie, nel linguaggio dell’emergenza, nelle paure di “invasione”.
La nostra società multiculturale non è un’anomalia, ma la conseguenza diretta di quella storia: i corpi, le lingue e le culture che oggi si intrecciano nelle nostre città sono lo specchio vivente di un passato che ci abita ancora, e che chiede di essere riletto con onestà.
Eppure, a milioni di loro viene ancora negata la cittadinanza. Nonostante studi e ricerche mostrino come il sentirsi cittadini — a pieno titolo — migliori i risultati scolastici, la partecipazione civica, la fiducia nelle istituzioni. La legge, in questo senso, continua a dire “tu non appartieni”, anche a chi parla italiano meglio di noi, a chi conosce solo questa terra.
A ciò si aggiunge una scuola che fatica a rinnovarsi. Molti docenti, spesso senza colpa ma per mancanza di formazione, inciampano nei nomi “difficili”, confondono solidarietà con pietismo, e talvolta scivolano in forme inconsapevoli di esclusione. Serve un’educazione interculturale che non sia un “tema” ma una pratica quotidiana, parte integrante della professionalità docente.
Sempre nel testo della Hakuzwimana si citano alcune politiche attuate in altri paesi dove ad esempio si valorizza l’L1 come l’L2, dove vi sono tutor specializzati per l’accompagnamento didattico, dei migranti, dove i programmi non sono etnocentrici ma globali.
Intorno, poi, risuona la voce greve degli adulti: “prima gli italiani”, “reimmigrazione”, “riprendiamoci il nostro Paese”. Slogan vuoti, nostalgie tossiche di un tempo che non è mai esistito.
Nel frattempo, i ragazzi — nelle scuole, nelle piazze, sui mezzi — vivono già nel mondo che verrà. Basta sostare davanti a un liceo all’uscita: lingue che si intrecciano, sorrisi, abitudini condivise, amicizie che scavalcano ogni confine.
Sono loro, come sempre, a restituirci la parte migliore di noi.
E a ricordarci che l’intercultura non è un obiettivo da raggiungere, ma una realtà da imparare a riconoscere.